01 ottobre 2009


Il senso civico è uno stock di capitale

di Luigi Zingales


C on l'aiuto del premio Nobel Joseph Stiglitz, il governo Sarkozy ha elaborato dei nuovi criteri per valutare la performance di un'economia nazionale. Il prodotto interno lordo - si sa - è una misura molto approssimativa della ricchezza prodotta ogni anno. Non tiene conto del valore aggiunto non retribuito (per esempio i manicaretti fatti in casa, mentre conteggia quelli comprati al ristorante), del valore del tempo libero, dell'inquinamento prodotto. Anche se il risultato raggiunto dalla commissione Stiglitz è molto al di sotto della fanfara con cui è stato presentato, l'iniziativa è meritevole. Non tanto perché solletica l'orgoglio dei francesi, che guarda caso risultano molto più in alto nella classifica internazionale calcolata secondo i nuovi criteri, ma perché cerca di combattere alcune distorsioni prodotte da misure imperfette.
L'accountability tanto nel settore pubblico come in quello privato è un fatto molto importante e così sono gli incentivi volti a motivare le persone a conseguire dei risultati. Quando l'obiettivo da conseguire non è facilmente misurabile (come accade nella quasi totalità dei casi), però, l'accountability ha un lato oscuro: crea incentivi a massimizzare non l'obiettivo finale, ma la misura dell'obiettivo. Il manager pagato in base ai profitti annuali massimizzerà i profitti annuali, anche a costo di ridurre il valore dell'impresa. L'insegnante valutato sulla base dei risultati dei test degli studenti insegnerà come fare meglio nel test, anche a scapito dell'educazione dei ragazzi, e così via.
Questa distorsione è presente non solo quando esiste un vero e proprio contratto di incentivo, ma anche quando un manager o un politico sa di essere valutato dall'opinione pubblica sulla base di alcuni parametri. In dibattiti e campagne elettorali, la performance di un governo è misurata sulla base di misure imperfette: la crescita del Pil, il livello di inflazione, il livello di disoccupazione, il deficit pubblico. Non a caso tutti i governi (chi più, chi meno) hanno sempre cercato di manipolare queste statistiche, anticipando le entrate e posticipando le spese, escludendo alcuni beni da imposte o rincari per ridurre l'inflazione misurata, eccetera.
La creazione di misure alternative serve a ridurre gli incentivi a manipolare gli indicatori a spese dei risultati. Il manager che è pagato non solo in base ai profitti di quest'anno ma anche al valore creato sul lungo periodo avrà meno incentivi a sacrificare l'uno per l'altro. Ben vengano quindi misure alternative di performance nazionale, che aiutino a ridurre il focus dei politici su obiettivi di breve periodo, a scapito di quelli di lungo.
A questo riguardo mi permetto di aggiungere un utile indicatore, non presente nelle proposte di Stiglitz: un indicatore del senso civico di una popolazione. Se in Svezia la gente paga le tasse, rispetta le code, e non butta le carte per terra, non è perché gli svedesi sono geneticamente superiori, ma perché nei decenni (se non nei secoli) hanno accumulato dei valori e delle aspettative che inducono gli abitanti a comportarsi in questo modo virtuoso. La scuola ha insegnato loro l'importanza di questi comportamenti per il bene collettivo e l'esperienza quotidiana li ha educati sui costi sociali e legali di deviare da questi comportamenti virtuosi. Se gli americani non parcheggiano illegalmente non è perché sono più onesti, ma perché l'esperienza ha loro insegnato che ogni qualvolta lo fanno vengono severamente puniti. Nel tempo questo atteggiamento diventa un'abitudine e persiste anche in assenza di una punizione. Ad esempio alcuni ricercatori hanno scoperto che il numero di parcheggi illegali effettuati dai rappresentanti nazionali all'Onu di New York (che godono del beneficio della extraterritorialità e quindi non devono pagare le multe) sono molto diversi a seconda del paese di provenienza. I rappresentanti svedesi non parcheggiano mai illegalmente mentre quelli italiani vantano la bellezza di 14,6 infrazioni per ogni diplomatico.
Questo senso civico è equiparabile ad uno stock di capitale, non fisico, ma virtuale, che caratterizza una società. Questo capitale si traduce in una migliore performance da tutti i punti di vista. In paesi dove il capitale civico è più elevato, l'amministrazione pubblica funziona meglio, i beni pubblici sono meglio conservati, l'economia prospera, l'ordine pubblico viene assicurato a più basso costo.
È tanto più importante misurare questo capitale, perché si tratta di uno stock che viene accumulato molto lentamente, ma può venire dissipato molto rapidamente. Ci vogliono alcune generazioni perché gli immigrati in America raggiungano il livello di senso civico dell'americano medio. Ma se ci vogliono generazioni per migliorare, si può peggiorare molto rapidamente. Sacrificare l'interesse particolare per il bene collettivo è costoso, ed è sostenibile solo quando viene percepita come una norma comune. Senza questa convinzione la stragrande maggioranza dei cittadini finisce per ignorare il bene collettivo.
Proprio perché questo prezioso capitale è a rischio di un deprezzamento rapido sarebbe utile misurarlo regolarmente, affinché possa diventare uno degli indicatori della performance di un governo. Prendete lo scudo fiscale approvato ieri dalla Camera con la fiducia. Valutato secondo i parametri tradizionali rappresenta una manovra brillante: riduce il deficit, senza aumentare le tasse. Ma come impatta il nostro capitale civico? Affrancando per pochi euro evasioni fiscali e reati contabili, questa legge rafforza la percezione che in Italia ad essere onesti siano solo i fessi. Forse questa percezione esisteva già e il ministro Tremonti - che confida nel successo del provvedimento - non ha fatto altro che trarne le logiche conseguenze, ma senza una misura del danno, la tentazione di deprezzare il capitale civico per un vantaggio immediato diventa irresistibile. A pagare il conto saranno le generazioni future: un conto più elevato del debito pubblico che lo scudo aiuta a ridurre.

1 OTTOBRE 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il sole 24ore

19 febbraio 2009

WORLD BUSINESS GUIDE (truffa)

ATTENZIONE!!!!
WORLD BUSINESS GUIDE ; un fantomatico registro di aziende in internet con sede a Utrecht in Olanda. Che nessuno registri, gratis, il proprio nominativo: in realtà, firmando in calce il documento si da' via ad un abbonamento di 995 EUR all'anno. Una truffa che dall'estero e possibile. La chimamano 'pubblicità ingannevole'. La nostra giurisdizione, in effetti può poco. Aprire un'istruttoria in Olanda costa troppo al nostro Stato

DAD: la risposta 3 (secondo sollecito)

il Pubblico Ministero ha archiviato, in data 19.12.2008 gli atti del procedimento penale ( Avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione -  artt. 408, comma 2, 549 c.p.p. 126 D.L.vo n. 271/89), poiché la pubblictà ingannevole non è perseguibile (soprattutto all'estero) poiché non esisterebbero le caratteristiche di Truffa....




24 ottobre 2008

Roberto Saviano

Andrò via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...', dice Roberto Saviano. 'Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me'. 

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. 'Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, 'usarmi'. E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?'.
Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile. 
E' poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai 'sudditi' che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte. 

Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: 'Saviano è un uomo di merda'. Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: 'Saviano è un ricchione'. No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei 'angeli custodi', ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: 'Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là''. 

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, 'per il momento', di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana. 
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti. 
(15 ottobre 2008

02 ottobre 2008

DAD: la risposta 2



si sono fatti sentire: questa volta, ci ringraziano se ci siamo dimenticati di loro per una svista...

03 settembre 2008

truffa DAD: la risposta



Gli amici deteschi, ma a questo punto direi italiani, non si sono fatti aspettare rispondendo al mio diniego ad onorare questo "contratto"...

 
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